venerdì 1 febbraio 2013

TEMERARIO (per essere un asciugamano)


--Poco tempo. Ma contorni già così diversi. Altre mura, altre voci, altre luci. Il brillante non era ancora tornato a brillare, ma la nebbia spariva e pian piano anche l’opaco prendeva colore. Certo il mondo non era cambiato, nessuna certezza. Ma lui si, o forse semplicemente s’illudeva d’esserlo. Certo il temporale non era poi così male. Ora almeno la frase “c’è chi aspetta la pioggia per non piangere da solo” era bella e basta. Prima era triste e basta.-- Questi i suoi primi pensieri scendendo dal letto quella mattina. Prima il sinistro, poi il destro.. si! Era il piede giusto, tiè all’inciampo!
L’asciugamano del bagno era sempre al solito posto, chissà cosa pensava a vedere la sua faccia sporca prima di lui, ogni giorno. “Ciao Ascy, lo so che il tempo fa schifo oggi ma non preoccuparti, il mio viso è sempre uguale, ti bagnerai giusto un po’ e lo so che forse ti dispiacerà che non sia pioggia ma domani ti faccio fare il girettino che ti piace, insieme a tutti gli altri! Potrai rotolare e sguazzare nell’acqua bollente per un’oretta, giocare con la schiuma e infine stiracchiarti un po’! Domani ci si diverte Ascy, vedrai!”.
Ma l’asciugamano non lo degnò di uno sguardo, contrito ed impegnato com’era a mantenersi in equilibrio sulla sua asta di metallo. “Lo sai che in altre parti d’Italia ti chiamano Tovaglia? Si, come quella su cui s’imbandisce la tavola! Lo sai che se ti lamenti ancora e mi guardi così potrei cambiarti nome anch’io? Guarda che tu sei un principe confronto a lei eh! Lei deve guardar le persone mangiare senza mai poter inghiottire nulla, sai? In più queste persone spesso non hanno particolare cura della sua pulizia e si lasciano cadere pietanze unte dal piatto, magari abbandonandola inzaccherata per giorni! Tu non sei così esposto alle tentazioni caro mio! Devi ritenerti fortunato: non vedi, non pensi e non brami. Più facile di così!”.
A quel punto l’asciugamano stava inevitabilmente scivolando in avanti, senza rispondere. “Guarda che a rovinarti ci metto un secondo sai? Se mi stanco di te posso usarti come “Scendidoccia” eh! E lì rimpiangerai di essere nato asciugamano! Sempre umido e sozzo di polvere, sempre a contatto coi piedi di tutti. Non vedrai più né sole né luna attraverso la finestra perché sarai anche riposto in basso, dove nessuno potrà vederti.”.
Il rettangolo di stoffa colorata era sempre lì, ammutolito e precario. “Ancora non ti basta? E se ti dicessi che quando sarai vecchio ti userò accartocciato sul pavimento per tappare il vento che entra dalle porte? Saranno guai per te! Perché sarai sempre esposto al freddo in inverno e al caldo in estate! Te ne rendi conto?”.
Più infastidito che mai, l’uomo capii che Ascy non avrebbe risposto quel giorno, chiuso com’era nel suo silenzio di ago e filo colorato. Ok, se vuoi metterla così facciamo che, quando sarai così consunto da divenire antiestetico anche per fermare il vento, ti taglierò in quattro pezzi e ti userò per sgrassare e spolverare. Il tuo tessuto diverrà pessimo, corroso da mille detersivi diversi e la candeggina altererà definitivamente ciò che rimane dei tuoi pezzi di colore!”.
Con un lieve tonfo l’asciugamano era finalmente a terra. Si, aveva fatto di tutto per cadere: cadendo sarebbe finito sulla giostra con l’acqua, avrebbe flirtato con bolle di sapone e sarebbe stato coccolato da odori e morbidezze detergenti. Non era così male sporcarsi coscientemente! Sapeva che non sarebbe mai finito in quattro pezzi a raccogliere polvere dalle mensole. O almeno non oggi, nel pieno della sua utilità. E per oggi tutto ciò che voleva era rivedere il mondo da un oblò, ed anche oggi era fatta! “Ci si diverte oggi” pensava sporcandosi bene per terra “non domani, OGGI!!!!”

mercoledì 18 aprile 2012

I 10 NONCOMANDAMENTI



1-      Ricordarsi di guardare fuori perché dentro ci si guarda fin troppo;

2-      Riscaldare il cuore ogni tanto.. prima che le delusioni della vita spengano anche l’ultima fiammella;

3-      Ricercare l’unico granello umido in un’immensa distesa di sabbia arida;

4-      Lavarsi le mani spesso per non rischiare d’intaccare il mondo con la propria sporcizia;

5-      Affondare dentro agli occhi di qualcuno senza prepotenza… come collirio alla camomilla;

6-      Immaginare di poter volare anche quando la stanchezza inchioda le gambe al suolo;

7-      I dolci coprono spesso l’amaro in bocca;

8-      Togliere le scarpe è come posare la valigia, anche se solo per qualche minuto;

9-      Decidere. E dopo la decisione cambiare idea e sbagliare comunque. Prima o poi ci capirai qualcosa;

10-  Soffrire un po’, perché dietro ad ogni sofferenza si nasconde qualche verità. Ed una sola verità può redimerti da infinite sofferenze.

mercoledì 30 novembre 2011

VERTIGINI

Quanto sole oggi.. e quante nubi oggi.. e quanta gravità e che altezze.

Si era accorto di essere sedotto dall’altezza solo dal momento in cui era stato costretto a conviverci quotidianamente. Prese l’ascensore, d’impeto, sperando che nessuno riuscisse anticipatamente a pigiare il tasto “chiama”.

Nono piano. Sopra di lui solo un fantastico attico al quale non aveva accesso.. poi la libertà: un cielo cangiante si, ma pur sempre infinito; molto spesso uggioso, incazzato con la città, deciso a prevalere su quegli spigoli urbani che cozzavano prepotentemente con la sua estrema naturalezza.

Sesto piano. Sentiva nel cuore ancora quella strana sensazione.. e lungo le gambe ancora quello strano formicolio. Era un piano ben fornito il sesto: Maria, Lidia, Desy. Avvenenti.. ed estremamente colte. L’ascensore si bloccava piano e si schiudeva. Dalla fessura già le due coppie di occhi stavano folgorandosi. Una bellissima scarpa purpurea varcava la soglia dell’ascensore luccicando come un’insegna, un invito ad alzare gli occhi e gustarsi il resto. Oggi più che mai Desy era splendida, statuaria nel suo completo bianco di Chanel, una cartella scarlatta in mano… curata in ogni minimo dettaglio. Sorrise maliziosamente, spostando i lunghi capelli scuri dal viso -Buondì Filippo, sembri riposato oggi-. Lui, bellissimo nella sua calma congenita, sorrise mostrando denti bianchi, quasi più dello Chanel di lei. Mosse impercettibilmente le labbra -Sono stato sedotto dalla mia finestra ieri-. Negli occhi chiari di Desy guizzò un barlume di gelosia nei confronti di quell’infisso intruso… -Ceniamo insieme?-  -Sono a dieta Desy- e di nuovo quel sorriso meraviglioso.

Quarto piano. Che strano avvertire quell’eccitazione. Filippo era distratto da sensazioni innaturali, non aveva nessun interesse alla compagnia dell’avvenente donna. Lei aveva finto di reagire con impassibilità al rifiuto allo stesso modo in cui una bellissima margherita, improvvisamente privata dai petali, continua a star su, dritta e composta. La margherita lanciò un’occhiata al suo carnefice dal pollice non-verde e le parve d’intravedere un minimo di irrequietezza, totalmente estranea all’atavica imperturbabilità del suo ammaliante condomino. Difatti, lo stato evasivo mentale dell’uomo aveva contagiato anche le sue membra: sguardo estremamente trasognante, mani sudate e formicolio, che aveva abbandonato le gambe per sgusciare sotto la camicia azzurra, rapido, lungo la colonna vertebrale.

Terzo piano. L’ascensore ri-sospendeva il suo viaggio. La porta scorreva e lasciava intravedere una ragazza sconosciuta. Filippo sentì il suo cuore battere più forte. Guardò quella creatura come fosse mistica… eppure niente del suo aspetto la faceva assomigliare a Maria, Lidia, Desy (che ora guardava la scena con estrema curiosità minatoria). Lunghi capelli chiari e sciolti si accomodavano su di un montgomery rosso fragola, la sua mano stringeva forte il lembo di una borsa pesante e consumata. Sulle unghie il passato prossimo di uno smalto che c’era stato. Sotto le ciglia perfette faceva capolino lo smeraldo di una pupilla triste, sommessa. Filippo ne era inspiegabilmente e prepotentemente attratto, come lo era stato della sua finestra, il giorno prima. Desy guardava l’altra donna dall’alto dei suoi quindici centimetri di tacco, a tratti trasportata ed infastidita, scostava la chioma scura come fosse una criniera e ad ogni minimo cenno una folata di profumo irradiava quel chiuso e ristrettissimo quadrato di ferro, l’incrocio di tre vite.

Lui incontrava decine di donne al giorno, molte bellissime. Spesso catturavano la sua attenzione di proposito, altrettanto spesso gli regalavano gesti eclatanti. Ne era lusingato e ciò aumentava notevolmente la sua autostima ogni volta che posava lo sguardo sul gentil sesso.

Ma lei non era comune. Lei non era semplice. Lei non era prevedibile.

Quel rosso era più rosso di tutti gli altri rossi… magnifico ai suoi occhi. E d’un tratto non aveva più nulla da dire. Avrebbe voluto sentirla parlare. Se la sua voce fosse stata bella come ciò che traspariva dalla sua essenza, poteva arrendersi subito all’evidenza di un totale coinvolgimento sensoriale nei confronti di una perfetta estranea.

Piano terra. Arrivo. Due minuti avevano stravolto tutto. Provò a fermarla dal braccio, ma non un solo muscolo riuscì a muoversi. La porta subì l’ennesimo slittamento e l’ultimo battito di ciglia fu per lui. Poi temeraria ed inafferrabile scivolò via nelle sue scarpette comode, in un attimo, perdendosi nelle strade cittadine. Perdendosi nel mondo.

Filippo afferrò per la prima volta a piene mani l’Amore. Già soffriva… era innamorato! Della sua finestra. Della libertà. Di quella donna che doveva lasciar eclissare… perché, se mai fosse stata sua, avrebbe perso tutta quell’inebriante e vertiginosa autodeterminazione.

domenica 27 novembre 2011

CENERE

"Ho provato ad essere più forte della mia natura,
ma la mia natura non permette sai a me
di essere più forte, più forte poi di che?
più forte forse della tua natura che allo stesso modo poi.. ti spinge a me"

mercoledì 23 novembre 2011

MEGLIO NON PENSARE

Apre gli occhi… appannati, tutto è appannato. Fuori grigio di nebbia e il grigio gli è entrato nelle pupille, ora non vede più nulla: niente colori, niente forme, niente profili. D'altronde lo sapeva, prima o poi sarebbe successo, doveva scappare prima. Erano diversi giorni ormai che gli riusciva difficile cogliere le sfumature, ma meglio non pensare.
"Meglio non pensare" si ripeteva.

Già una settimana prima aveva camminato per strada calpestando foglie e ramoscelli e cartacce e cicche di sigarette bagnate. Era autunno, le foglie cadono in autunno ed i ramoscelli idem; le cartacce sono la comune vendetta dell'uomo, l'uomo che vuole sempre esser al pari della natura, così che, se la natura lascia cadere una foglia, egli lascia cadere il primo rifiuto che si ritrova in mano; le cicche non hanno stagione, sono ovunque ed in qualsiasi stato decompositivo. Tutto normale quindi, tutto secondo le regole del mondo.
Forse però qualcosa non tornava... perché le foglie cadevano sulla sua testa, il vento gli soffiava forte in faccia sporcandogliela di brina, la terra polverizzata si rifugiava nelle narici ed era costretto a coprirsi gli occhi, la bocca, il naso, le orecchie. Non ce la faceva, stava perdendo contro il nulla... sentiva che qualcosa era inequivocabilmente contro di lui... ma "meglio non pensare". Spegneva la mente ed accelerava il passo.

Il giorno successivo era di nuovo per strada, di nuovo in compagnia di se stesso, anatomicamente perfetto. Gli occhi blu si soffermavano di tanto in tanto sui confortevoli oggetti delle vetrine illuminate, nella penombra della sera tutte le luci potevano brillare di più. E brillavano, come i suoi occhi... ma pochi colori, tanto grigio. Nelle orecchie sentiva il vociare piacevole di due donne, malgrado lui fosse vicinissimo continuavano tranquille con le intime confidenze interrompendosi solo allo strombazzare assordante di un clacson impazzito. Suonava nel grigio. Poteva addirittura percepire il profumo fruttato dei loro capelli... ma bastava un solo passo e ne aveva perso la traccia, sporcandosi il naso con l'odore forte delle caldarroste bruciate dal fumo grigio. Tutto normale, è solo un po’ di nebbia, basta così poco per innervosirti? Tra lui e casa sua un breve attraversamento pedonale. E naturalmente il semaforo. Si, aspettava il verde, mai un briciolo di fortuna.
Chiuse gli occhi, li riaprì, li stropicciò, e di nuovo, e ancora. Non vedeva proprio nessun verde e nessun rosso e nessun arancione, solo un grande puntino che saliva e scendeva ogni minuto. La strada era vuota e passò, stavolta senza chiedere permesso allo strano semaforo... sentiva che qualcosa era inequivocabilmente contro di lui... ma "meglio non pensare". Spegneva la mente e cercava le chiavi.

Nelle ventiquattrore successive non uscì, scelse della bella musica e guardò un film. Aveva deciso di tenere le serrande abbassate per evitare ogni tipo di contatto con l'esterno. Suonarono il citofono e non aprì, chiunque fosse proveniva da fuori, quindi aveva sicuramente respirato quell'aria strana e minacciosa. Inutile nasconderlo a se stessi, ormai ne era traumatizzato. Ed era profondamente in collera con la sua parte impaurita, non poteva accettarlo. S'alzò di scatto, spargendo per terra le briciole dei biscotti che aveva addosso, aprì finestra e serranda... e di nuovo quel grigio invadeva ogni cosa. Cercò di proteggersi alla rinfusa con lenzuola, asciugamani, tutto ciò che trovava. Non aveva più la forza di barricarsi dentro.
Gridò, con sorda disperazione. Nessuno parve sentirlo, nessuno rispose. Avvertiva piano una sensazione di nausea e paura aggrapparsi su per lo stomaco, poi arrivava in gola sfociando in un soffocante magone. Il blu bagnato dei suoi occhi bruciava e pungeva.. e solo nel momento in cui l’ultima stanchezza prendeva il sopravvento capì di non essere neppure in grado di percepire se stesso: erano lacrime o gocce di nebbia salata quelle che colavano dal blu? Mai aveva desiderato una lacrima autentica in quel modo… l’ultimo desiderio. Ma non aveva più energie per constatare il più semplice dato di fatto.
“Pensare, pensare… dovevo pensare”.

martedì 26 luglio 2011

A CASO

Era parecchio tempo che ti sentivi così. La voglia di vivere cresceva in te al pari alla voglia di conoscere la morte. Non la morte in sé, gli attimi che la precedono. Immaginavi il tuo dopo ma soprattutto il dopo degli altri senza te. Quasi ti sentissi al centro dell’universo, nella smania convulsa e agonistica di lasciare un’impronta di sé, di impressionare più di quanto si riesca a fare in vita, stupire più di quanto si potesse fare nella realtà.
E nel frattempo ti gingillavi in stupidi passatempi. I pochi casi in cui lasciavi man libera al pensiero si tramutavano in tormenti, angosce, rimandi, ansie. Eri ancora giovane ma ti sentivi più che mai sconfitta e pessimista. Era il pessimismo il tuo più grande difetto, non riuscivi a sbattergli la porta in faccia, nemmeno per il misero spazio di un giorno.
Avevi abbandonato qualcuno di recente. Ti era sembrato coraggioso. No, era coraggioso. Ci pensavi e ripensavi: “cos’è il coraggio? il coraggio sono io. Il coraggio è la mia forza di restare lontano pur sentendolo vicino”. In fondo non avevi tutti i torti, in fondo tutti pagano a caro prezzo il proprio coraggio e questo era il tuo pegno, lo accettavi o ritornavi indietro a commettere gli stessi errori, con la coda tra le gambe e guardando lo specchio attraverso un foglio di carta, giusto per alterare un minimo l’immagine riflessa di te. Anzi, gli specchi rimanevano un problema relativo, la tua coscienza, il tuo “Io” sarebbe venuto fuori comunque: parlandoti, sbeffeggiandoti, ciao-sono-io-che-sei-anche-tu-sono-qui-per-ricordarti-che-non-si-possiede-nessuno-e-che-l’egoismo-acceca.
Qualcuno diceva che c’è un tempo per uscire dalla vita di una persona anche quando non si ha un posto dove andare. Ecco. Quella era esattamente la tua situazione. Era come sentirsi un barbone e rinunciare ad una minestra calda d’inverno.. guardarla, agognarla e voltarle deliberatamente le spalle “io quella minestra non la merito, non ho poi così tanta fame, non ho poi così tanto freddo. Tanti soffrono più di me, hanno bisogno più di me di quella minestra, di quel calore.”. E improvvisamente diventavi un barbone forte, senza un tetto sotto cui dormire e senza cibo, ma il tuo corpo si adeguava, riscaldandosi e nutrendosi di ricordi, premure, piccole accortezze che solo tu riuscivi ad avere per te stessa “grazie piccola me, grazie, hai resistito bene oggi” e t’addormentavi serena.
Del resto, se il pessimismo era un grande difetto, l’adattamento era il tuo piccolo pregio. T’era sempre piaciuto mimetizzarti, cambiare di tanto in tanto i tuoi comportamenti, riscoprirti diversa e simile ogni giorno o appurare le tue coerenze solo attraverso le tue forti contraddizioni. Era un lavoraccio il tuo. Perennemente scoraggiata eppure tremendamente coraggiosa. Come fosse possibile un tale sillogismo non ti è mai balzato in mente.
Il mattino, al risveglio, eri sempre un po’ intirizzita, nonostante il caldo.. negli attimi della semi-incoscienza che precede il rinsavimento cercavi con gli occhi appannati qualcosa e non la trovavi mai, cercavi una sensazione ma era lontana, sfumata nel tempo: “buongiorno piccola me, non ci pensare, sai quante cose da fare oggi?” e ti rallegravi vedendo i raggi entrare silenziosi dalla persiana, sentendo il profumo del mare e il vento. Non mancava mai il vento, sempre fedele lui. E tu sempre meteoropatica, sempre in balia del clima. Ma ciò ti faceva sentir viva, condizionabile. E non da esseri umani ma dalla natura. Finalmente un ruolo a questa povera natura, finalmente una nuova centralità. Ti piaceva sapere di dipendere così da lei, ti sentivi protetta e vulnerabile come quando si ama profondamente qualcuno. Ti sarebbe piaciuto amare qualcuno nello stesso modo in cui amavi la natura: la stessa dedizione, lo stesso trasporto idilliaco, la profonda irrinunciabilità, l’impossibilità di emanciparti del tutto da essa e al medesimo tempo l’indipendenza, l’affidabilità mista a imprevedibilità… ma amando la natura eri salva dalla gelosia. Della natura si è gelosi solo in modo sano. Di un essere umano no.
Così ti destavi barcollante, pochi minuti di lucidità e lo stordimento avrebbe consegnato le armi al raziocinio: molti sentimentalismi si sarebbero finalmente allontanati per un po’. Cose da femminuccia i sentimentalismi, la tua innata corazza di cera non ne permetteva l’ingresso né tantomeno una lunga sosta “Chi mi manca? Che mi manca? Forse un po’ di fortuna, ma arriverà, arriverà, un’alba-un giorno-un tramonto-una notte arriverà.”
Che storia la fortuna, che scherzo il destino “ci credo, ma non troppo.. esiste, ma non bene.. forse è meglio chiamarlo caso, sa più di natura.. il destino l’ha inventato l’uomo, il caso invece è diretta conseguenza del primordiale caos universale. Si, si, meglio il caso.”

sabato 28 maggio 2011

MANIFESTO DELLA FELICITA' (promemoria per me stessa)



1. Soffri di tutto, ma soffri bene;

2. Lotta per poco, ma lotta con intelligenza; 


3. Guardati attorno e guarda con occhi attenti, critici, ma liberi da ogni pregiudizio;

4. Afferra l’utile e attingi con discrezione al dilettevole;

5. Parla con gli oggetti che ti piacciono se le persone non riescono ad ascoltarti;

6. Gioca con i tuoi sentimenti, prima che ci giochino gli altri, potrai dire di essere stata la prima;

7. Prenditi in giro sempre, ti abituerai al mondo con più disinvoltura;

8. Prenditi sul serio altrettanto spesso, il destino non esiste se sai quello che fai;

9. Piangi quando sei sola, potrai conservare tutte le lacrime in fazzoletti che nessuno violerà mai;

10. Ridi in compagnia, è il tuo biglietto da visita e la tua maschera per il ballo davanti al mondo;

11. Raggiungi un posto altissimo e poi guarda giù, la tua impotenza di fronte alla gravità sveglierà i tuoi istinti;

12. Fermati a raccogliere una foglia, ogni tanto, o un fiore, un ramo.. ti ricorderà che, fuori dalle tue mura inermi, la vita dilaga rigogliosa;

13. Osserva i colori, studia le sfumature, non lamentarti del caldo dell’estate e del freddo invernale: disdegna della neutralità;

14. Prepara una valigetta e mettici i ricordi, avendo cura di avvolgerli con ovatta. Poi riponila nella testa. Aprila tutte le volte che vuoi, le brutture non faranno più male;

15. Chiama tua madre la sera, insultala e fatti insultare, niente può scalfire il vostro rapporto;

16. Chiama tuo padre, ascoltalo ed assecondalo, poi fai di testa tua, per sbagliare e prendertela con te stessa;

17. Incontra un amico, mangiate assieme, fallo sorridere, dagli una scala per risalire e raggiungerti quando è giù;

18. Infine guardati allo specchio, sotto la tua pelle c’è tanto altro che tu stessa non riuscirai mai a vedere e passerai tutta la vita a lottare per sbirciarti fino in fondo, non ce la farai… ma il tuo impegno quotidiano vale tutto lo sforzo e probabilmente, davanti all’ultima proiezione di te, sfoggerai un sorriso che non avevi mai pensato di avere.

domenica 22 maggio 2011

JUSTINE

Cosa doveva rispondere se le chiedevano come stava?
Ringraziava e rispondeva come di consueto -benone, benone-, sorriso smagliante.
Nessuno poteva immaginare cosa vibrava, scalciava, bruciava ed urlava dentro la sua testa. Il suo cuore no, quello era calmo, regolare e ritmato. Ma la testa… la testa era un problema, il suo muro intorno al mondo… come un recinto spinato attorno ad un bellissimo, dannatissimo prato.
Aveva smesso da tempo di scrivere un diario, odiava scrivere ed odiava scrivere di sé poiché in quelle occasioni era come se, riflettendosi allo specchio, scorgesse la faccia ed il corpo di una sconosciuta che non le piaceva. Ma la sera prima ricordava di avere una penna in mano, un post-it e tanta noia. Ed aveva appuntato qualcosa. Appena finito, scorrendo velocemente gli occhi sulle righe, si rese conto che era tutto orrendo, stropicciò il post-it, lo gettò nell’immondizia. Poi tornò indietro, lo recuperò senza guardarlo e lo nascose tra dei libri. Fortuna volle che quella mattina aveva voglia di pulire, riordinare la sua stanza, ed era solo un modo per riordinare invano dentro lei, per l’ennesima volta.
Spazzò, selezionò la biancheria, mise in ordine i profumi e inavvertitamente le caddero i libri. Eccolo lì, giallo e piccolo, evidenziato per natura… il suo pensiero più profondo sembrava prendere vita. Lui a terra, lei in piedi… e stranamente riusciva a leggero, malgrado i caratteri fossero piccolissimi ogni parola le saltava inquietantemente agli occhi…
- Sono viva, mi sento piccola e inutile. La verità è che mi faccio troppe seghe mentali ed ho perso quasi tutta la mia autostima. E’ questo il mio problema. Non ho bisogno di amare. Ho bisogno di una persona che mi faccia sentire al centro del suo mondo. Solo allora, e solo per un breve periodo di tempo, riesco a dare qualche sporadico frutto. Sempre grazie a spinte esterne… da me non parte mai nulla. Sono una persona noiosa, asettica, triste, solitaria, complessata, insicura, indecisa. Tutto fuori è migliore di me, tutto è in grado di scavalcarmi. Allo stesso tempo nessuno è in grado di distruggermi… perché ho la corazza. Non provo sentimenti profondi, non mi lascio mai coinvolgere totalmente da nessuna attività, da nessun essere umano. Ho il cuore chiuso, sprangato, deluso dal mondo e dalla vita. -.
Forse doveva imparare a memoria quelle parole. Ed avere finalmente una risposta sincera quando qualcuno le chiedeva come stava.
Poi spostò gli occhi, non era l’unica cosa evidenziata nelle vicinanze: un altro post-it era scivolato quasi completamente sotto il letto, impolverandosi. Non riusciva a leggerlo e lo raccolse:
- Sono morta, mi sento grande ed altruista. La verità è che viaggio piacevolmente in me stessa avendo una forte autostima. E’ questo il mio vantaggio. Ho bisogno di amare. Ho bisogno di porre una persona al centro del mio mondo. Anche allora, e per sempre, riesco a concentrarmi su di me. Non mi servono grandi spinte esterne… parte sempre tutto da me. Sono una persona attiva, confortevole, allegra, mondana, disinibita, sicura, decisa. Tutto fuori è alla mia altezza, niente è in grado di scavalcarmi. Allo stesso tempo qualcuno è in grado di distruggermi… perché non ho corazza. Provo sentimenti profondi, mi lascio coinvolgere totalmente da qualsiasi attività, da qualsiasi essere umano. Ho il cuore aperto, libero, innamorato del mondo e della vita. -.
Era l’orrendo pensiero della sera prima, le era sembrato presuntuoso. Ma alla luce del sole, tra la povere, capiva quanto fosse cambiata dal post-it nascosto l’anno prima. Sentiva la sua rinascita ed ogni pezzo scivolava naturalmente al suo posto. Si era spolverata e rassettata… la sua mente era salva. Come il suo cuore.

giovedì 11 novembre 2010

LO SPECCHIO DELL'ANIMA

Si svegliò di soppiatto, era confuso. L’odore del caffè penetrava nei muri della stanza ed affogava le sue narici. Difese con i denti la voglia di restare ancora un po’ sotto le coperte. Fuori era freddo e lo sapeva bene. E poi quel caffè non era per lui, avrebbe comunque dovuto rifarlo se ne avesse avuto voglia. Ma non ce la faceva a rimanere lì, ora che era lucido e cosciente avvertiva gli spifferi gelidi entrare dalla parte superiore del piumone, in direzione del collo. Si tuffò più giù, nel buio più profondo, ma avvertiva una spiacevole sensazione di soffocamento accumulata all’odore del caffè.

Decise di donare finalmente il suo corpo seminudo a quell’aria pungente. Si vestì in fretta, per nulla interessato a selezionare i capi da indossare. Con occhi gonfi di sonno e le righe del cuscino stampate sulle gote uscì di casa come un lampo. Vedeva nebbia ovunque, non aveva lasciato ai suoi occhi il tempo necessario ad abituarsi alla potente luce naturale che, malgrado il cielo burrascoso, dipingeva ogni cosa di bianchi e di grigi. Tutto ciò perché voleva vedere il fiume, non ricordava l’ultima volta che l’aveva osservato a quell’ora, forse non lo aveva fatto mai. Iniziò a camminare a passo svelto, i vecchietti lo guardavano interrogandosi sul suo stato di salute; una signora in pelliccia guardò a lungo i suoi capelli e, nel lapidario incontro di sguardi, lei fece segno di sdegno, sistemò l’ingombrante sciarpa e continuò a camminare a testa alta. Sicuramente non era nata bella, ma la situazione era evidentemente peggiorata dagli anni e dal conseguente (malriuscito) tentativo di ringiovanirsi. Lui la lasciò passare indifferente, non gli aveva provocato nessun effetto quello sguardo. Si girò e la sua bocca parlò per lui: “crescere ancora un po’ non le farà male Signora!”. Lei s’irrigidì e cercò sostegno nei volti degli anziani intorno. Lui sentiva addosso gli sguardi, inconsapevoli delle premesse dell’accaduto... ma ancora una volta non se ne curò.

Arrivò al fiume con la gola in fiamme, aveva respirato troppo a lungo e a pieni polmoni quell’aria gelata, solo perché gli piaceva guardare il suo respiro caldo condensarsi appena fuori dalla bocca. Indossava nient'altro che una camicia blu, raccattata chissà in quale angolo della sua stanza. Si strinse nelle spalle cercando un minimo di calore, guardò verso il basso, non sentiva più i suoi piedi: le dita rosa, quasi bianchicce, spuntavano dal tubino arancione... era uscito con le infradito, usate in casa a mò di ciabatte. Pensò che, forse, aveva sbagliato ad essere così precipitoso. Mai lo era stato in vita sua. Aveva sempre programmato la qualunque e seguito un ennesimo ragionamento per decine di volte prima di trarre una conclusione. E spesso non ne traeva neppure mezza. Ma quella mattina i segni erano così evidenti… doveva agire d’istinto, quella era la giornata dell’istinto, si chiese se non fosse nato solo ed esclusivamente per vivere quell’unica giornata. E, stranamente, non se lo richiese. Non ci badò affatto. 

Corse lungo l’alto marciapiede che costeggiava il fiume con lo scopo di trovare una scaletta per avvicinarsi all’acqua. Doveva scendere: sentiva il bisogno di un contatto vero poiché le immagini non bastavano più. Aveva estremamente bisogno di utilizzare gli altri sensi e fu gratificato da quell’odore d'erba appena tagliata; ma non era ancora il profumo del fiume. Trovò la scala e scese, stavolta lentamente, assaporando gradino per gradino gli odori e il paesaggio, toccando il corrimano come se sfiorasse il corpo levigato di una donna inerme. Si avvicinò all’acqua e il suo pensiero si perse in un nulla che sembrava tutto. Navigò monti e scalò mari, raccolse farfalle e catturò fiori, vide i profumi ed annusò gli spazi. Sembrava tutto chiaro oggi che la paura aveva lasciato il posto alla pazzia.

Un’ombra alle sue spalle sputò qualcosa in acqua. Il pescatore s’era posteggiato accanto a lui e con fare indaffarato sventrava i vermi e li infilzava con l’amo, poi sputava ancora e si grattava il pacco. Guardava il ragazzo con sufficienza e ciò che pensava di lui era scritto a chiare lettere nei suoi occhi sporchi: quel pazzo vicino all’acqua era strano, fissava il vuoto con occhiaie scure, i capelli arruffati ed appiccicosi, gli abiti puliti ma scomposti (stropicciati e sin troppo leggeri per il periodo, Natale era alle porte). Di sicuro aveva fatto le ore piccole e non era rientrato a casa per via dello sballo. 

Convinto che il ragazzo fosse troppo fatto si abbandonò ad un pensiero a voce alta: “vai a farti spaccare, cretino d’un fannullone”. Dimitri lo guardò e sorrise, sentì il primo bottone della camicia blu scivolare fuori dall’occhiello ma non si ricompose. Chinandosi prese un filo d’erba, lo mise in bocca e lo masticò adagio... pur avendo osservato a lungo il fiume, notò solo in quel momento i detriti lungo la riva: un dentifricio consunto e, poco più in là, un calzino di neonato, color porpora, logorato dall’acqua verde-marrone del fiume. Non si aspettava quel tanfo. Il fiume sembrava essersi stagnato, suggeriva tristezza, sospirava fango. Dimitri accarezzò l’acqua torbida, quasi viscida, con ambo le mani… poi ne prese un po’ portandosela in viso, facendo movimenti rotatori che insudiciarono i suoi zigomi di melma: il marrone del terriccio si fondeva, ancora una volta, col verde del muschio.
Il pescatore lo aveva scrutato per tutto il tempo, le azioni del ragazzo avevano confermato ogni sua tesi: il disgraziato era sotto forte effetto di stupefacenti. Ancora una volta, incurante, sbuffò e sussurrò: “fossi mì figlio ti butterei in quest’acqua, marcia come a te. E ti sputerei addosso uno dè miei vermi”.

I piedi nudi erano ora bianchi dal freddo, il bordo inferiore e zuppo del tubino arancione aveva assunto un colore scuro. Gli occhi grandi e cristallini, sinceri. Dimitri era finalmente in pace con se stesso: la natura denigrata e offesa poiché mischiata all’umano, ai suoi occhi appariva ancora paradisiaca. Il giudizio (e il pregiudizio) degli uomini era per lui, prima d’allora, l’aspettativa da non deludere mai. Oggi però, nel giorno dell’istinto, profondamente illuminato si accorgeva del fittizio: il fittizio era lo sfondo della sua esistenza.

Si voltò piano verso il rude pescatore con sguardo docile e benevolente, allargò le labbra rosate con la tempra e l’energia di un uomo fregiato dalla speranza: “Lei pesca per hobby, io per lavoro. Ma io ho il mare. E i suoi occhi, caro signore, sono del colore dell’acqua, l’acqua di questo fiume. Le consiglio di comprarsi delle lenti colorate, di un colore pulito.”

venerdì 29 ottobre 2010

CARA DOLCE INVERNATA

Insopportabile. Questo il mio sinonimo per l’inverno. Non lo tollero, è più forte di me.
Tutto ha il suo incipit nel mese di ottobre, al sorgere di mattine dispettosamente gelide, quando il semplice ed automatico gesto di sollevar le coperte prospetta già la pesantezza che avrà il mio stato d’animo per tutta la giornata.


Si prosegue con il presentarsi di attività “sguatterine” di ogni tipo, ed esempio lavare i piatti: Gemma ci offre a pagamento la sua gelida acquetta di morte nel lavandino. E’ lei la proprietaria dello scaldabagno… al contempo proprietaria del “nostro lavandino” (in affitto) e della “nostra cucina” (in affitto). Ma l’affitto viene (quasi) regolarmente riversato nelle sue strabordanti taschine.
Ora io mi chiedo: come fa la vecchietta a lavarsi integralmente con acqua gelida? Se io ho già grosse difficoltà a sciacquare anche solo un ortaggio??? Le sensate risposte sono due: o la suddetta Gemmina non si sciacqua da tanto, oppure ha appositamente acquistato una bella muta da sub termoelettrica per darsi una scossa di vita oltre che tutelarsi dal gelo.
Fino a quando si rimane in casa il problema rimane contenuto. Quindi inevitabilmente arriva il momento in cui si deve uscire per svariati motivi: o l’incontro con la pattumiera, causa l’enciclopedica e sproporzionata mole di rifiuti che riusciamo a produrre in 5; o una capatina al bancomat, causa il verde delle varie tasche; oppure il suicidio volontario di un pomeriggio in biblioteca di architettura. Bellina, relativamente antica, piccoletta. Le pareti vuote, gli ampi tavoli in legno chiaro. I soffitti affrescati nei momenti di maggiore sconforto mi ricordano un caldo caffelatte e il cigolio dell’altissima porta d’entrata riproduce inconsapevolmente il rumore amplificato delle centinaia di libri sfogliati nello stesso momento. Ma neppure lì si riesce a scappare dal gelo. Rinsecchita e frastornata cerco di strofinare le mani sui jeans, poi in tasca, poi tra le gambe e la sedia… nada. Allora riguardo il soffitto, m’immagino un fumante caffelatte e mi pare quasi di sentire un certo torpore. In realtà sono i crampi allo stomaco che m’invitano ad inserire gentilmente qualcosa di genuino nel pancino. Senza tentennare mi alzo dalla seggiola, prendo qualche monetina e mi reco nella sala-distributore, gelida. Compro qualcosa di genuino, i distributori sono colmi di roba genuina. Ingerisco. Pezzi di cioccolato mi si congelano nell’esofago. Mi sento colpevole e appagata al tempo stesso, felice di dover ritornare sui libri e poter continuare ad ingozzarmi di nozioni. Nel momento in cui penso che ce la farò a finire le tre pagine mancanti a fine capitolo, tre tocchi leggeri di campanello. La biblioteca chiude. E tutti giù a rimpinzare con vigore la propria borsa di libri e cancelleria varia. Finirò a casa, mi dico. Ma figuriamoci.

Si torna alla dolce dimora, ed è già buio. C’è un po’ di vento freddo, soprattutto sull’incrocio. La mia borsa pesa e la mia schiena, potesse agire col proprio cervello, si auto-flagellerebbe schiacciandosi qualche vertebra. E’ nella dolce dimora che finalmente ritrovo la temperatura ottimale. Butto la qualunque sulla poltroncina e il mio corpo sul letto, pc, pigiama e pantofole. Ahhhhhh!!!! Finisce bene questa giornata-tipo!

Poi mi ricordo della cena, della pentola che mi cadrà, della tovaglia che mai ci sarà, del bicchiere che non userò, e i piatti. No, i piatti con l’acqua gelida di Gemma no!!!